Alberto Zanchetta

CONTROCIRCUITI

Senza rendercene conto, siamo passati dal genere Homo direttamente sui generis della Natura Artificialis: al posto delle ossa, dei muscoli, degli organi, dei sistemi nervosi o di quelli vascolari troviamo chip, sensori e trasmettitori che ci mostrano uno scorticato tecnotronico. Le opere che stiamo guardando non sono altro che le vestigia della civiltà macchinica, ossia il ricettacolo della nostra umanità informatica e industrializzata.

Il riferimento iconografico di queste opere attinge alla società consumistica, a prodotti/merci ridotti all’essenza. Flaminio Gualdoni ha scritto che Mario De Leo «esplora la macchina informatica a partire dallo stereotipo visivo delle sue viscere, e la schematizza sino a farne una sorta di motivo decorativo, sul quale far aggettare altre forme di visione anch’essa stereotipata, ma terragna, legata a un sapere antico, radicale del mondo». Combinando minuziosamente il décor tecnologico al détail dei propri segni ancestrali, l’artista avvera uno scambio da un piano fisico a un piano simbolico; nell’opera viene quindi a strutturarsi un momento topico in cui l’ornamento non é più considerato – come faceva Adolf Loos – un vile “delitto”, bensì un linguaggio funzionale e sostanziale.

Mediante un rarefatto processo cromatico, la pittura polimaterica finisce per produrre un’emissione di luminosità: luce che è conoscenza, luce che è spiritualità. Ed è proprio per questa ragione che nelle opere ricorre con insistenza il simbolo del cuneo dorato, il quale permette un travaso dal reale al trascendentale. De facto, il cuneo è un vettore di senso e di fede nell’arte.

Affinando l’occhio ci si accorge che le strutture primarie disseminate tutt’intorno a noi alludono a un’investigazione che non hai mai fine, a un processo senza tempo. Tra passato e futuro, tra natura e cultura, tra arte e scienza, le opere rimandano al centro nevralgico delle cose, generando un circuito “virtuoso” (più che vizioso) in costante evoluzione. A causa della sovreccitazione degli elementi grammaticali che progrediscono in modo spontaneo, non è possibile riuscire a cogliere appieno la complessa narrativa di questi micro-universi. Tuttavia, nel turbinare dei flussi informatici, la storia e le tradizioni continuano ad accumulare sinapsi di pittura.

In questa concentrazione di energie e di tensioni, le apparecchiature tecnologiche vengono decostruite attraverso una modalità non invasiva. L’high-tech viene cioè “disarmato” per permettere una remise en question del dato ontologico, con il conseguente passaggio dall’energia elettrica a un’energia vitale e materica che sia in grado di risvegliare e rivelare verità sopite.

Molteplici direzioni animano le nebulose di De Leo: la totalità omogenea deflagra in una pluralità differenziata, dando vita a grovigli polimorfi che si irraggiano nel vuoto, riempiendolo di forme geometriche, architettoniche e tecnologiche. Gli elementi più leggeri ristagnano sulla superficie, fluttuano nella deriva del bianco topico e prendono possesso del primo piano. Altri elementi tendono invece a inabissarsi, creando una dissolvenza dei piani. Le forme aggettanti restituiscono una valenza fisica alla superficie pittorica; in pratica si crea uno scollamento delle parti, che è anche un tipico rapporto tra primo piano e sfondo, tra la forma e la sua sedimentazione. Queste immagini sono – lo dice bene Francesca Alfano Miglietti – «fenomeni di percezione, osservatori di una dimensione cosmica che ha bisogno di meccanismi per potersi visualizzare».

Come detto poc’anzi, gli elettrodi affiorano sulla tela a guisa di alfabeti etno-tecnologici. Dal proprio retroterra culturale, in specie quello musicale, l’artista desume quell’euritmia di segni grafici, grovigli-graffiti-geroglifici sulla cui sintassi si articolano queste Lettere cosmiche che portano in sé la porosità della memoria e la fragilità dell’universo.

Alberto Zanchetta, 2016