Luigi Bianco

De Leo è la grazia.

La grazia povera.

Povera per scelta artistica e civile.

 

Ancora: non grazia nel senso di quel modulo grazioso su cui hanno fatto le loro fortune campioni d’estetiche fragili come Treccani o – all’opposto – costruttori intelligenti come Munari. Inevitabilmente, drasticamente: grazia come stato di grazia.

Stato di grazia che deriva da una straordinaria spiritualità interna e si materializza nell’opera creata con materiali poveri.

Poveri perché la grazia è già ricchezza: e quindi De Leo ha bisogno di materiali minimi (ma non è un minimalista!) per farla esplodere.

I materiali li trova per strada, nei rifiuti, nei prati, negli uffici e negli scarti di quella civiltà industriale-postindustriale-elettronica-informatica che nella luce del cuore respinge ma che poi “accredita” valorizzandone appunto gli scarti.

Che questo stato di grazia tocchi un uomo come De Leo è quasi miracoloso.

De Leo viene dalla terra senza pane del Sud, dalla fabbrica violenta del Nord, dai monolocali senza aria, dalla musica selvaggiamente americanizzata: avrebbe tutte le ragioni per “protestare” con l’uso di materiali pittorici duri, forti, demagogici.

Invece il suo stato di grazia povera lo porta a illuminare se stesso e gli altri di poesia che incanta, che scava nel profondo senza offendere occhi e timpani.

Anche lui in qualche modo scarto dell’industria, parte di qui per evitare altri scarti, per far sì che il miracolo dell’arte diventi anche miracolo di vita (spirituale e sociale).

Scarto più precisamente dell’industria discografica (perché osava ricercare le radici italiane quando gli altri si ubriacavano di facili esotismi e consumismi), De Leo ripropone la sua fresca musicalità nelle fughe un po’ surreali-futuriste di certi materiali meccanici.

Attenzione, però: non materiali in fuga, cioé gratuiti.

La musicalità è necessaria per la fuga dell’arte: che non è mai definibile dentro uno schema.

Ma non musicalità in fuga come “fenomeno esotico” (anche se un po’ d’esotismo in De Leo c’è) o come il grazioso di prima: piuttosto, ritmo magico dello stato di grazia.

Ritmo mai prestabilito o ripetuto, ma che nasce nella coscienza autodidatta dell’artista: dell’artista che sa di essere un “predestinato”.

Allora, ritmo irregolare. In musica, si direbbe non tonale.

Cioè: De Leo non segue canoni-codici estetici prestabiliti o definiti da “maestri” o accademici di noioso talento.

Dentro lo stato di grazia, De Leo interrompe il ritmo nell’irregolarità di un certo “incompiuto”: nel senso – se possibile – dell’ “inespresso” di pasoliniana memoria.

Lo stato di grazia lo avvicina in qualche modo all’Arte Povera (non a caso ama Zorio): ma l’irregolarità e l’inespresso lo distaccano.

L’opera di Zorio e compagni è sempre perfetta. L’opera di De Leo no.

Ed è proprio l’imperfezione (quel non finito o mai finito chissà perché) a fare scorrere la corrente poetica che innerva il ritmo un po’ monotono della perfezione.

Non che De Leo non sia capace di opere classicamente compiute (è capacissimo, ha anche delle bellissime doti pittoriche): ma non fare l’opera compiuta è una sua scelta fondamentale.

Incompiutezza ed imperfezione non devono però essere intese nel senso letterale delle parole ma in quello poetico.

De Leo non è mai banale, perfetto e lineare (su una linea già metodicamente fissata).

È incompiuto come quell’acqua di montagna che non è fiume, ruscello o canale ma balza e rimbalza creando ritmi imprevedibili.

De Leo non segue il canale perché la strada diritta gli dà fastidio. Da tempo si è tirato fuori dal gregge e non vuole più rientrarci.

Strada non dritta non vuol dire – però – storta o difficile o complicata.

De Leo – altro suo merito – è “semplice”. Ha anche una grazia diretta che proprio le anime semplici sono in grado di capire subito. Affronta strumenti sofisticati come il computer o i derivati della civiltà elettronica con l’animo poetico e saggio del contadino che sente la terra come meraviglia – pane – madre e saluta nell’elicottero (o nel televisore) un “meraviglioso” compagno d’avventura, un portatore di novità positive (anche la televisione non programmata solo a scopi consumistici è portatrice di novità).

Un artista come De Leo – che dipinge da sempre e non espone quasi mai – sarebbe piaciuto a Picasso (è un caso che abbia chiamato suo figlio Pablo?). Non per lo stile o il modo di lavorare, ma proprio per l’innocenza creativa e solare: sempre in agguato, nelle opere come negli occhi dell’uomo, e tanto più risplendente quanto più la si accosta alla tortuosità degli altri o anche al romanticismo sfinito degli artisti maledetti.

Se possibile, De Leo è un artista benedetto (lui, laico).

Un artista di cui il mondo ha bisogno per specchiarsi nella poesia pura: per ricordarsi che gli uomini non sempre sono lupi.

Meglio. Con De Leo gli uomini sono stati spesso lupi: ma i lupi non sono riusciti a mangiare l’agnello.

Gli hanno tolto la pelle, i soldi, l’hanno chiuso in scatola. Ma lui è riuscito a sopravvivere, inseguendo sempre un sogno d’artista. Sogno che non dimentica mai l’uomo e abbaglia il lupo con fucilate di grazia e di sole.

I lupi hanno cercato di inchiodarlo alla catena di montaggio e alla claustrofobia dei 30 metri per respirare, mangiare, dormire, lavorare, godere? Bene. De Leo sogna stupende architetture dove si possa vivere fuori dalla regola banale, dove l’immaginazione sia finalmente al potere.

Sogna strutture contro la regola imbecille di chi si arrende alle facili soluzioni del già fatto, del modulo comodamente industrializzato.

Quindi. Scelte e materiali poveri da una parte, ma racconto ricco dall’altra.

Gesti anche minimi, ma colori mediterranei e umore pieno.

Solarità e abbandono di un’anima che non rifiuta la “debolezza”: una volta prerogativa femminile, oggi – forse – virtù di uomini liberi, che hanno preso coscienza dei valori più intimi e non hanno vergogna di piangere, se necessario.

Guardare le sue opere significa fare un bagno di poesia in acque limpide e mosse dal ritmo della creatività irregolare: acque che anche quando sembrano aggredirti (non si creda, De Leo ha pure gesti forti!) non ti travolgono mai. Ti portano via parlandoti di cose importanti e fondamentali ma non ti fanno naufragare nella noia o nella tempesta.

Nel panorama di talenti spenti o sovraccarichi, De Leo appare come un miracolo.

Non sciupiamolo subito. Non chiediamogli troppo. Non facciamogli troppe domande sulla completezza di un’opera o sui codici canonizzati della storia dell’arte. Non incastriamolo in situazioni stupide o sbagliate. Non soffochiamolo costringendolo in un altro monolocale senza luce e respiro.

De Leo sa fare ricerca colta anche senza padri o una cultura specifica. Sa perché crea e perché cresce creando. Spontaneamente. Se è vero, chi è allora?

Può essere Rousseau come Ligabue, Gauguin e Picasso, Kandisky e Klee, Moreni e Zorio, Balla e Calder, Melotti e Pescador.

Allora? Bisogna etichettarlo?

Concettuale per l’idea sempre all’erta? Parente dell’Arte Povera? Neoespressionista gentile? Neofuturista dell’era computerizzata? Informale leggero?

Informale – forse – per l’uso dei materiali. Ma l’informalità non sta qui.

Per capirlo, bisogna ritornare allo stato di grazia, al momento – cioè – che accomuna tutti gli artisti universali, irregolari o regolari che siano.

Dopo, è naturale dire che De Leo sente il bisogno della costruzione delicata dentro una gestualità libera, rafforzata da improvvisi scatti di energia.

È naturale dire che sente il bisogno di volare nello spazio con le sue architetture piramidali.

Se Fontana è entrato nello spazio con il taglio della tela, De Leo entra nello spazio dal taglio della sua esistenza.

Nello spazio entrano anche la terra, il mare, la fabbrica, gli acquerelli stupendi liberati dalla sua mano felice, i sogni perduti e quelli da non perdere.

Il sogno più significativo sembra proprio quello di riappropriarsi poeticamente-umanamente degli scarti dell’industria elettronica e della “Civiltà” dei consumi.

Così, ecco il deflettore di una macchina o il piatto consumato di un disco, il plexiglas rotto, la plastica abbandonata, le finestre distrutte, i televisori senza rumori o il bit bit del computer che si è fermato su un foglio ormai in disuso.

Materiali che, in un gesto ultimo e sublime, De Leo vorrebbe lanciare nello spazio: a testimoniare in altri mondi il valore o le debolezze o lo schifo di una civiltà che non esiste più ma che esisterà sempre se – in questo mondo – gli uomini impareranno (anche da De Leo) ad essere meno lupi e più agnelli.

Ancora una volta l’utopia? Per fortuna!

Luigi Bianco

Milano, novembre 1986